Articolo:
E. Terzano, "Infin che il Veltro verrà" in Il
nuovo laboratorio, Bologna, a. III, n. 14, aprile 1984, pp. 22-25.
"Infin
che il Veltro verrà"
Sarebbero partiti per un viaggio. Nella macchina di marchio americano
di colore nero, tre uomini e una donna, equipaggiati da quegli occhi
di fotocamera che rubando al marmo e la pietra l'immagine, la restituisce,
poi, come tessera per comporre mosaici.
Il viaggio sarebbe stato lungo l'autostrada che conduce a Sud. Il Termine
il luogo dove Ulisse sacrificò i buoi per poter entrare nell'Averno.
Sulla costa si sarebbero fermati una notte: per sentire il sapore forte
del vino, l'odore dei semi di finocchio nella carne di maiale e guardare
il cielo d'aria fina con le stelle leggibili che è rarità
di cui il Sud s'inonda.
Il giorno avrebbero raggiunto l'interno, dopo aver visto il mare spettatore
impersonale del " ...mondo eroico nel quale gli amanti muoiono
l'uno per l'altro ". Avrebbero parlato con moderazione, con precauzioni
inevitabili con chiunque.
Al gruppo si sarebbe aggiunto un quarto uomo, un architetto, con gli
occhi da fiera selvaggia, lontanissimo dalla fredda albagia dello studioso
che occupando il trono esclusivo del logografo rivela, con arroganza
accademica, nelle brevi durate dell'udienza.
Avrebbero incontrato un nome di paese, con il nome di lupi sanguinari
nelle stragi: solo gli uomini dotati d'uccelli rapaci o i quadri letti
come letteratura o le cattedrali composte come libri di pietra, ne recano
testimonianza. La memoria della parola si danna se si vuole dimenticata.
Sarebbero arrivati in una radura in una valle, morbida e ampia, che
accoglie in vista ciò che prima v'era negato dal bosco. Una lieve
sinuosa elevazione del terreno ospiterebbe una chiesa di nome S. Maria...
- di pianta rettangolare - con campanile - a pianta quadrata - che la
precede e ne é distaccato.
Il cammino inizia sotto la mezza ruota. La neve sarebbe stata raccolta
a fiocchetti, in mezzo all'erba, per conservarsi nelle parti più
vicine al terreno, mentre il vento secco dell'inverno avrebbe soffiato
da Ovest.
La facciata della chiesa si sarebbe creduta di stile più antico,
se non fosse per una sottesa volontà di mimetizzare un'altra
chiesa, andata probabilmente in parte o completamente distrutta. Ne
costruirono un falso, retrodatabile, per nascondere la vera identità.
Sarebbe arrivato, dopo qualche ora, un giovane custode, gentile, che
aveva già rubato al gruppo un respiro d'ammirazione.
L'interno verrebbe aperto agli occhi, la porta laterale avrebbe lasciato
entrare il sole gelido di gennaio, quella centrale il vento in forma
di correnti. Sul lato destro una tomba di una bellezza rara. La rivelazione
dell'insonnia del gruppo.
Le fotocamere imparziali avrebbero colto ogni particolare, ogni totale;
ogni campo smembrato e riportato altrove sotto altri occhi. Il pittore
del gruppo al mattino si sarebbe svegliato guardando la sua immagine
riflessa nello specchio, avrebbe scoperto la stanchezza, quella di chi
non ha conosciuto che le privazioni volontarie.
La donna avrebbe suonato le tre piccole campane che precedono l'antifona
dell'offertorio, poste su una colonna prossima all'abside di destra.
Il cronista avrebbe raccolto questo suono sul suo portatile adoperandosi
nel parlare degli " atteggiamenti maestosi e immoti delle statue
", dei rilievi, delle architetture, dei motivi poetici divenuti
immagini e dell'oralità tramandata da abili scultori con protomi
articolabili e facili nel tornare ad essere parole e frasi.
L'architetto avrebbe svelato la chiave di lettura - di ogni linguaggio
bisogna conoscere il modo - sculture e rilievi tornati ad essere parole
e frasi e viceversa.
La Lupa sarebbe dunque tornata a far parlare di sé: che "
molte genti fé già vive grame " (...) " in fin
che 'l Veltro verrà, che la farà morir con doglia ".
Non si dovrebbe essere del tutto certi " ...che conoscere l'amore
sia più inebriante che scoprire la poesia ".
Uno scudo bandato avrebbe coronato, sui due lati, un Cristo benedicente
da seduto. Sulla cuspide della facciata avrebbero notato un'aquila con
tre serpenti - dalla testa umana - tra gli artigli. Poche parole incise
sulla pietra avrebbero riassunto le tessere sparse - se quelle fossero
giunte - così che l'invito é a quel gioco disinvolto di
chi non fu molto invasato dal suo dio da trascurare l'umano.
Il custode avrebbe invitato il gruppo a bere del vino giovane e torbido
di melasse e fermenti ancora troppo vivi; acqua calda per le mani secche
e viola per il freddo; e gli odori di serti di insaccato di maiale,
in festoni appesi al soffitto, troppo freschi e molli per essere gustati.
Il custode non avrebbe avuto la bassa paura di dispiacere potendo sognare
la vita del gruppo a modo suo. Avrebbe fotografato il rilievo di tre
uccelli dai grossi becchi, dei quali, alla morte, nessuna prefica avrebbe
pianto per aver fatto " miserrima fine ". Una calma straordinaria
seguita da una religiosa trepidazione dell'animo al dileguare del dubbio:
la rima si sarebbe scoperta alternata. Che bue traendo la lingua "
'l naso lecchi ".
Il pittore si sarebbe ubriacato di vino, informazioni e di novità
come nelle vernici. La donna si sarebbe provata ad essere più
casta, certo sappiamo che ella non é un Angelo. Il cronista -
come inizio - avrebbe preso una sedia dei fedeli e con essa, scavalcato
un signore disteso con abiti di foggia medioevale, avrebbe osservato,
su una fascia aperta di dieci centimetri nascosti alla vista, nel protiro
violato, e fra vari femori e tibie avrebbe visto e rimosso - per ricollocarlo
a cinquanta centimetri da lì - : pennello.
Enzo
Terzano
(I continua)
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